Come dentro a “Senegal fast food”

di Lara Mannu

“Il biglietto per il Senegal* l’ho prenotato 15 giorni prima di partire, giusto per accorciare il più possibile l’attesa del viaggio. Dal 4 maggio al 19 giugno. Bologna-Dakar con scalo a Parigi.
All’aeroporto di Dakar mi hanno accolta in serie: l’umidità, un paio di militari che sorvegliavano gli sportelli per il controllo dei passaporti, il frenetico viavai per ritirare i bagagli e Moussa, il figlio dell’attore senegalese Mandiaye N’Diaye su cui ho scritto la tesi.

Una volta uscita dall’aeroporto, ad indicarmi che era notte c’era solo il buio pesto della periferia di Dakar, per il resto, la città era viva e rumorosa come se ci si trovasse nel bel mezzo di un mercato all’ora di punta. Nella strada dall’aeroporto a casa di Moussa cercavo di scrutare il maggior numero possibile di dettagli nonostante la pochissima illuminazione e la velocità con cui il tassista si destreggiava tra le altre auto.

Arrivata a casa, ad aspettarci c’era Thioro, la moglie di Moussa. Lei parla wolof, io italiano e francese. Sorrisi e abbracci sono internazionali e così, invece che incastrarci in complicati giochi di parole, ci affidiamo a semplici gesti. Mi fa vedere quella che sarebbe stata la mia camera: un letto matrimoniale sormontato da una zanzariera a baldacchino, due comodini ai lati, una cassettiera, un armadio e un fortissimo odore di incenso. Ah la teranga senegalese, quel misto di premura, solidarietà, accoglienza, gentilezza, rispetto e fratellanza che viene riservata all’ospite facendolo sentire parte della famiglia.

Quello che ricordo della prima notte a Dakar (e anche di tutte quelle successive) sono l’altoparlante da cui risuona il richiamo del muezzin alle cinque del mattino, il canto del gallo e le voci stridenti dei bambini.
Quello che ricordo della prima colazione a Dakar è un telo steso a terra, un paio di baguette con il burro, il té dolcissimo con un retrogusto di menta e il caffè touba.
Quello che ricordo del primo pranzo a Dakar è un piatto gigante in acciaio, pieno di riso, verdure, pesce e due forchette, una per me e una per Moussa.

Sin dall’inizio a colpirmi è stato il forte senso di comunità. La casa era condivisa con i famigliari (eravamo in 10) così come lo erano il bagno ed il piatto da cui si mangiava. Ritagliarmi un po’ di tempo in solitudine non era semplice: quando non c’erano i bambini c’era il muezzin a farmi compagnia. Anche il tempo era in comune. Una sera, dopo essere tornata da un festival di teatro con un gruppo di amici, mi sono appartata per ragionare un po’ su tutto quello che i miei occhi stavano fotografando e la mia mente stava assorbendo. Retaggio dell’individualismo occidentale, per me la riflessione e la solitudine sono fondamentali per metabolizzare e analizzare i fatti.

Ad un certo punto, un amico si è avvicinato preoccupato, dicendomi che se ero triste e nostalgica non dovevo stare sola perché adesso che ero lontana da casa erano loro la mia famiglia. Rinunciai volentieri alla mia solitudine per ringraziare dell’immensità di quelle parole.

Di giorno la periferia di Dakar è rossa e grigia. È sabbia e case in muratura. Minareti e tetti piatti. Il traffico di Dakar è diverso da quello di Milano: persone a piedi, persone alla guida di carri trainati da cavalli, persone in macchina, persone sui Tata bus e sui carrapide, pulmini gialli decorati con scritte e immagini di guide spirituali senegalesi. Un montone legato a un palo sul bordo della strada. Capre che passeggiano da sole.

Per le strade di Dakar

Per le strade di Dakar

La città è caotica e il ritmo frenetico, nonostante avere fretta a Dakar sia altamente sconsigliato e inutile vista la lentezza degli spostamenti dovuta ai numerosi ingorghi. L’aria della capitale senegalese è un misto di smog e polvere e il cielo non è quasi mai limpido. Dakar è musica: in ogni bottega, negozietto e garage c’è una radio che canta e ogni tanto capita di imbattersi in qualche sabar, un misto di danza e musica tradizionale. Dakar è un quadro dipinto con pennellate ben definite. Tutto è esposto. Lo è il pezzo di vitello appeso fuori dal negozio con le mosche attaccate, la frutta sui banchi, il lavoro dei saldatori e quello dei sarti, lo è la povertà, declinata in tutte le sue forme. Qui in Europa non siamo più abituati ad avere tutto a vista, si preferisce chiudere in buste, scatole di plastica o di cemento a seconda del contenuto.

Tutt’altra cosa è Diol Kadd, un piccolo villaggio nella savana senegalese, situato nella regione di Thiés. Il nome, le foto, i racconti su Diol Kadd mi avevano accompagnata per tutto il periodo in cui avevo lavorato all’Ufficio di Cooperazione Decentrata* e più informazioni avevo, più la mia curiosità aumentava. Arrivare al villaggio è stato come tornare in un posto che già conoscevo. Vivere e confrontarmi con i beneficiari dei progetti che avevo aiutato a scrivere e realizzare dava una forma concreta a tutto quello che fino ad allora avevo solo immaginato. I baobab giganti, le acacie, le pecore scarne che si godono l’ombra, gli asini e la sabbia: la savana.

baobab

La vita al villaggio è lentissima: un giorno ho chiesto ad un amico che ora fosse e nonostante avesse in mano due telefoni non ha saputo rispondermi perché nessuno dei due segnava l’ora esatta. Il tempo a Diol ha un’altra forma. A confermarmi che anche lì esisteva c’era solo la presenza di un vecchio centenario se no avrei avuto qualche dubbio.I colori, i profumi, i riti religiosi, l’ospitalità, l’allegria, i canti, la musica, la solidarietà e la disponibilità delle persone, non il sole e la spiaggia, mi sono mancati dal primo giorno in cui me ne sono andata.

Non sono sicura di sapere cosa sia il mal d’Africa ma sono certa di conoscere il mal di Senegal”.

Lara Mannu

 

*Nel giugno 2015 ho vinto la borsa lavoro promossa dalla Fondazione Flaminia e ciò mi ha permesso di collaborare per sei mesi con l’Ufficio di Cooperazione Internazionale Decentrata del Comune di Ravenna. È stata una grande opportunità di crescita sia a livello lavorativo che personale, perché mi ha consentito di mettere in pratica ciò che fino ad allora avevo conosciuto solo a livello teorico e perché mi ha permesso di confrontarmi con persone competenti ed appassionate al loro lavoro. Le attività realizzate presso l’Ufficio di Cooperazione sono state fondamentali per completare la mia formazione universitaria e avere un riscontro diretto dei miei studi. Questa esperienza inoltre, è stata uno strumento utile per valorizzare le mie capacità, accrescere le mie competenze e per aiutarmi a comprendere meglio cosa volessi fare una volta terminati gli studi. La borsa lavoro per me ha significato anche un viaggio in Africa perché, proprio grazie ai mesi trascorsi a lavorare sui progetti promossi dal Comune di Ravenna, ho avuto modo di conoscere ed appassionarmi alla realtà di un piccolo villaggio della savana senegalese, Diol Kadd, su cui ho poi scritto la tesi di laurea.

 

Qui sotto il video di Manu Chao che ha ispirato il titolo del post:

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