È uno dei ricercatori più promettenti del panorama italiano, col suo team ha già ridisegnato molti importanti passaggi che riguardano l’arrivo di Homo sapiens in Europa e lo studio dell’evoluzione umana. Eppure la sua storia professionale non sembrava partita con questi presupposti. Al termine della scuola superiore era già pronto per lui un contratto come progettista per impianti di riscaldamento elettrici. Che a nulla è però valso di fronte al fascino per lo studio delle origini dell’uomo.
Stefano Benazzi è professore di Antropologia fisica al Dipartimento di Beni culturali di Ravenna. Di mestiere studia i resti umani, dai nostri antenati più antichi a quelli più recenti. Attualmente dirige il Dottorato di Campus in Beni Culturali e Ambientali.
La sua è una storia di talento e soprattutto di passione smisurata, di quelle passioni che portano in cima, abbattono i limiti, incoraggiano a perseguire i sogni e a vincere le difficoltà.
Trovare risposta alle domande ‘chi siamo’ e ‘da dove veniamo’ è stato ciò che lo ha spinto a iscriversi a Beni culturali a Ravenna. “Da lì è partito tutto ed è ancor oggi il motivo per cui il mio interesse è rivolto allo studio dell’evoluzione umana”, racconta.
“I primi due anni di università furono durissimi: venivo da un istituto tecnico e mi dovevo misurare con materie come il greco e il latino di cui non avevo il benché minimo ragguaglio. Ma le difficoltà maggiori venivano dal fatto che dovevo conciliare lo studio col lavoro. In quegli anni ho fatto di tutto, dalla pressa in fabbrica all’istruttore di nuoto. Passando da varie borse di studio e servizio civile. Il tempo a disposizione non era molto e dovevo studiare di notte, rinunciando a dormire. Non fu facile, ma la mia determinazione era tanta”.
Dopo la laurea è iniziato il dottorato e tante esperienze di scavo, in Egitto, in Iran in Italia.
Ma la carriera accademica è come una piramide, più si sale e più si fa dura. “Il 2007 fu un anno terribile, vissi uno degli scogli più grandi per un ricercatore: con la conclusione del dottorato, mi si prospettò il vuoto. Non c’erano assegni di ricerca disponibili, non c’era la possibilità di continuare a Ravenna. Avevo avviato dieci domande all’estero, erano arrivate solo risposte negative.
Ho valutato seriamente la possibilità di abbandonare e di trovare un altro lavoro. Ne parlai con il prof. Gruppioni che aveva seguito il mio percorso di studi, ero pronto a chiudere quella porta.
A quel punto, però, inaspettatamente, una piccola luce si è accesa a darmi nuova linfa. Mi chiamò il Dr. Ottmar Kullmer del Senckenberg Research Institute di Francoforte per un colloquio. Non avevo pubblicazioni, attestazioni, riconoscimenti. Mi assunse dicendo che si fidava della persona che gli ero sembrato da quella chiacchierata e la sua fiducia servì non solo a ridarmi convinzione, ma a rendere quell’anno tra i più importanti per la mia formazione. Dopo Francoforte sono seguiti altri cinque anni all’estero: prima a Vienna e poi a Lipsia.
Una lunga strada quella percorsa da Benazzi prima di ritornare a ‘casa’: fu un periodo molto difficile, di lavoro continuo, senza orari, né riposi, lontano dai propri cari. Una gavetta necessaria? “Senza dubbio – il professore risponde senza incertezze -. Servono almeno sei-sette anni per maturare quell’indipendenza professionale di cui non si può fare a meno”.
Nel 2014, a 12 anni dalla laurea, Benazzi è riuscito a rientrare al Dipartimento di Beni culturali come RTD-B grazie al programma per il “ritorno dei cervelli” Rita Levi Montalcini; da lì, dopo tre anni è diventato professore associato. “Ricordo ancora l’emozione di salire in cattedra: trovarmi lì, dopo tanti sacrifici, come docente, proprio dove avevo cominciato, fu un mix di felicità per aver realizzato un sogno, e di malinconia per non essere più studente”.
Un percorso lungo e denso di sacrifici che insegna molto a chi vuol seguire la carriera accademica: “Non c’è nulla di scontato, ed è vero ci sono ricercatori con grande talento che non ce la fanno, sono il primo a dire che è anche una questione di fortuna, di trovarsi nel posto giusto nel momento giusto, ma, sono certo che, se c’è la volontà tutto si può raggiungere. Non è facile soprattutto di questi tempi in cui la competizione è altissima, servono sacrifici, bisogna rimboccarsi le maniche, ma alla fine è possibile”.
Oggi il prof. Benazzi sta portando avanti numerose ricerche scientifiche, tra cui un importante progetto che riguarda i resti umani di alcuni Sapiens ritrovati in Sud Italia. L’obiettivo è dimostrare quando questi nostri antenati sono arrivati in Europa e individuare le caratteristiche bioculturali che rendono unica la nostra specie, loro diretta discendente. Mancano due anni alla conclusione dello studio, ma il suo team di lavoro ha già conseguito importanti risultati dimostrando che, a differenza dei Neanderthal, i Sapiens potevano contare a esempio su armi da getto e quindi su condizioni di vantaggio e superiorità fino a oggi sconosciute.
Nel futuro del ricercatore c’è ora un’altra sfida ambiziosa: “Rendere il mio team, formato attualmente da nove ricercatori, un gruppo di lavoro stabile e permanente, esclusivamente dedicato allo studio dell’evoluzione umana. Si tratterebbe di un unicum in Italia, non subordinato a borse, progetti di ricerca e bandi per supportare i ricercatori, ma di una realtà formalmente riconosciuta dall’Università di Bologna, il cui lavoro potrebbe diventare un fiore all’occhiello tutto ravennate e avere grandi ricadute a livello internazionale.
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