Gli abbiamo chiesto di calarsi la toga, di mostrarsi com’è, di spiegarci il suo amore per la luna, la poesia, la fotografia, il disegno, la musica e le figure femminili.
Lui, Mauro Perani, docente di ebraico al Dipartimento di Beni Culturali, laurea honoris causa conferita dall’Università Ebraica di Gerusalemme, conosciuto in tutto il mondo per aver fatto una delle scoperte più sensazionali degli ultimi tempi, e cioè che il più antico rotolo ebraico della Torah di uso liturgico che si conosca, era conservato proprio a casa nostra, nella Biblioteca Universitaria di Bologna, e nessuno lo sapeva, ci ha risposto così: “Non ho alcun problema a farlo e, soprattutto, nessun dubbio di scalfire in questo modo il mio ruolo di docente, tanto meno di perderne in immagine di fronte ai miei studenti”.
“Figuratevi che tutti gli anni finito il corso di ebraico, con alcuni ragazzi costituiamo il gruppo dei fanatici e continuiamo a vederci per far lezione fino a giugno, senza alcun obbligo, per puro piacere di chi vuole imparare bene la lingua dell’Antico Testamento! Non è straordinario? Io voglio bene ai miei studenti, e loro a me. Sapere di godere del loro affetto ed empatia, è il più grande riconoscimento”.
Ride, scherza, Mauro Perani, e dice di avere un forte senso dell’umorismo che lo porta a ridere di sé e degli altri: sua l’espressione nano banale, coniata vedendo quanto è grande la banalità umana. Dice di avere gli stessi anni del Festival di Sanremo più un paio di mesi. Fa voli pindarici. È una persona dolce e decisamente ‘fuori dalle righe’, eccentrico, vulcanico, geniale, di quelli che ci si augura sempre di trovare sul proprio percorso di studio perché sono benedizioni, ti fanno amare qualsiasi materia, dare il meglio di te.
“Mi sono innamorato della lingua e della cultura ebraica al primo anno di Filosofia all’Università di Padova nel 1971, quando iniziai a occuparmi della Bibbia ebraica, in particolare dei libri di crisi della sapienza tradizionale. La passione, infatti, mi è venuta leggendo il Qohelet e il libro di Giobbe, oltre al Cantico dei Cantici. Non sono ebreo di nascita ma mi sento tale dentro, senza per questo voler aderire a quella religione. Ho ricevuto da bambino un’educazione cattolica rigida e severa, più da Vaticano I che II. Sono meta-religioso, come sono stati a mio avviso Gesù, San Francesco, Gandhi, il Cardinal Martini e ora Papa Francesco. Per intenderci: credo nel Dio vero che non si identifica esattamente con quello delle varie religioni, perché ha diverse marce in più, e i metareligiosi quando ne parlano, fanno abbracciare gli uomini piuttosto che scannarsi”.
“Da ragazzo, all’esame di maturità, sono stato rimandato in matematica e fisica: io e queste materie non abbiamo mai avuto un buon rapporto. Ho sempre adorato la filosofia, i grandi pensieri e i sistemi di pensiero. All’università, poi, mi sono rifatto: tutti trenta con diverse lodi e un solo 29, in Filosofia morale, perché durante l’esame ho contestato il professore sull’aristotelismo come unica via per formulare i principi cristiani e il pensiero biblico. Il primo anno ho dato ben 8 esami su 19, poi ho trovato la fidanzata e mi sono trasferito a Bologna. Per un annetto ho fatto su e giù in treno: ricordo che alcune volte, volendo prendere il rapido, facevo il viaggio chiuso in bagno, perché non avevo fatto in tempo a prendere il biglietto!”.
“Durante la prima laurea in Filosofia, conseguita nel 1975, a Bologna studiavo e lavoravo: facevo il garzone o tutto fare in uno studio di restauro di quadri e pale d’altare in piazza Aldrovandi a 35.000 lire al mese per il solo pomeriggio; poi è arrivata la mia prima figlia, Chiara e, con lei, anche il mio secondo lavoro, questa volta con uno stipendio serio, 80.000 lire, facendo il telefonista e portiere pomeridiano all’Istituto di patologia vegetale dell’Università in via Filippo Re, dove avevo molto più tempo per studiare e laurearmi. Nel 1982 ho conseguito una seconda laurea in Storia orientale”.
E le passioni per la poesia, la musica, il disegno, la fotografia, la luna e le ombre? Oltre alla chitarra e all’armonica insieme, Mauro Perani suona lo shofar, il corno di montone ebraico, e si vanta di essere uno dei pochi a riuscir a fare tutte le sette note.
Un po’ Picasso, un pizzico di De Chirico e Modigliani. Così è, poi, lo stile del disegno a china di Mauro Perani. “Il mio soggetto preferito è il volto, migliaia di volti, molti di donne – spiega. Il volto è lo specchio dell’anima e mi attraggono le anime e le menti, che ci stanno dietro, mi piace scrutarle e descriverle. Ho una forte empatia per il femminile, e io stesso ho alcuni tratti del femminile come dolcezza, pazienza e bontà.
Di sé Perani dice poi di essere sensibile alla luna, di qui il suo interesse per questo satellite: “Sono meteopatico e percepisco anche sensibilmente l’influsso degli astri, ma questo è più difficile da capire, mentre quello della luna è molto più facile. Non stiamo parlando di magia, ma di attrazione geo-gravitazionale che sposta miliardi di tonnellate di acqua nelle maree degli oceani e influisce fortemente anche sul creato, sulla natura e sul mondo vegetale e animale. Tutto, l’uomo e la natura, è influenzato dalla luna. Con sensibilità diverse, tutti noi lo siamo: il problema è che non lo sappiamo, ne siamo scioccamente incoscienti. La luna piena segna la massima eccitazione vitalistica negli esseri animali e umani e nelle piante; spesso dà insonnia, e gli anziani incontinenti consumano il doppio di pannoloni. Io mi accorgo che sento sorgermi l’ispirazione artistica che si fa impellente. Del resto, Genesi 1 dice che Dio fece la luna ‘per dominare la notte’. Per questo la ritraggo spesso in foto”.
Poi c’è la poesia, altro mezzo di espressione artistica del prof originario di Castel Goffredo in provincia di Mantova, sia in italiano, sia in quel dialetto di casa che è una variante orientale del bresciano; e ci sono le ombre, che in fondo sintetizzano l’essere umile e umano che è Perani: ‘L’uomo è il sogno di un ombra’, recita un detto greco. Meno di niente quindi. Un’ombra non è altro che la proiezione del sole e se manca questo non esiste più. Le ombre ci fanno ricordare che tutto è effimero, un passaggio, siamo effimeri, un soffio di vento o, come dice Qohelet, vanità delle vanità, che passa come il vento”.
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