Sono sul volo che da Washington mi riporta in Italia. Sono triste, perché ho appena dovuto salutare tutti i miei amici, fare le valigie, e lasciare la mia casa…ancora una volta. Dall’inizio dell’anno, ho preso l’aereo sei volte, sono stata in quattro continenti diversi e ho cambiato fuso orario incessantemente. Non conto più le volte che ho cambiato casa, coinquilini, abitudini, lingua…
ma questa è la vita che ho sempre sognato. La vita della funzionaria internazionale: scoprire posti nuovi, lavorare nel mondo dello sviluppo, lavorare viaggiando.
Quando ero all’Università di Bologna, questo era il mio sogno: trovare lavoro alla Banca Mondiale o alle Nazioni Unite, per poter fare qualcosa per aiutare il mondo. Tuttavia, sapevo ben poco di questa carriera, e soprattutto del contenuto del lavoro in sé. E poi, quel sogno rimaneva nella categoria dei desideri impossibili da avverare: qualcosa a cui pensare ogni tanto per fantasticare, ma senza considerare nemmeno per un secondo la reale possibilità di realizzarlo, e quindi senza provare a concretizzarlo. Anzi, uno di quei pensieri che non ti sfiorano ogni tanto la mente, ti portano in un’altra dimensione, e ti fanno dimenticare per un istante da dove vieni. Poi torni a focalizzarti sulla realtà, e pensi a cercare di concretizzare ciò che invece è realizzabile, quel “second best” (o anche “third, or fourth”!) che hai a disposizione.
Perché non ho mai pensato di poter arrivare qui? Considerando che sono nata e cresciuta in un piccolo paese sulle montagne di Brescia, in Valcamonica, che non ho mai avuto connessioni con il mondo delle organizzazioni internazionali, che non sono cresciuta con una seconda lingua ne’ con la benché minima idea di cosa fosse quel mondo, ho sempre pensato che fosse estremamente improbabile farne parte.
Finita la triennale in sviluppo e cooperazione internazionale a Bologna, mi ero convinta che questo fosse sicuramente un settore affascinante. Qualcosa mi aveva cambiata irreversibilmente: dopo un anno incredibile trascorso all’Università di Parigi in Erasmus, avevo avuto per la prima volta la sensazione di aver vissuto in un mondo davvero internazionale, avevo dovuto studiare in un’altra lingua, interagire con persone di culture diverse, ambientarmi e vivere in un altro paese. Mi era piaciuto moltissimo, e la voglia di ripartire ormai non mi dava pace. Così, mentre frequentavo la laurea magistrale in Cooperazione Internazionale a Ravenna, provai a cercare altre opportunità, e vinsi il MAE-CRUI, un tirocinio offerto dal Ministero degli Affari Esteri che manda laureandi a lavorare per ambasciate e consolati in tutto il mondo. L’avevo vinto nel paese che sognavo, Senegal, e nel continente che più mi affascinava senza una ragione precisa, l’Africa. Avevo la sensazione che quello era il posto da cui avrei dovuto cominciare la mia carriera, e che mi attraeva visceralmente e mi faceva perdere con l’immaginazione nel guardare la sua geografia complessa e immensa.
In Senegal, per la prima volta nella mia vita, mi sono sentita sola. In un minuscolo bilocale in un quartiere popolare, arrivata proprio durante la stagione delle piogge con l’acqua che filtrava in casa ogni volta che pioveva, senza elettricità ogni giorno dalle sei di sera alle undici o mezzanotte, quindi senza aria condizionata in quel caldo umido impossibile da sopportare se non stando immobili e sdraiati…sola nel buio quasi ogni sera mi sono chiesta cosa mai ci fossi venuta a fare in Africa. Ma alla fine di quei quattro mesi avevo conosciuto il posto, avevo degli amici, e il lavoro in ambasciata mi piaceva, grazie soprattutto al mio tutor da cui imparavo ogni giorno. Ero tornata però con la consapevolezza che avrei dovuto capire cosa volevo fare da grande, provare senza pensare non era una strategia.
Così, dopo la laurea seguì un periodo di indecisione anche perché dall’università si esce senza conoscere il mondo del lavoro. Dopo un master in Sviluppo e gestione dei progetti internazionali, ero finita a Milano, in una piccola società di consulenza. Mi ritenevo fra le più fortunate, in una società seria, nonostante Milano non fosse la città per me. E certamente lontana dal mondo dello sviluppo di terreno… che rimaneva ormai un ricordo lontano per me.
Non mi sarei mai aspettata, in una qualsiasi mattina di agosto del 2012, mentre facevo colazione al mare durante la mia settimana di vacanza estiva, di ricevere una telefonata dall’African Development Bank.
Mademoiselle Ricaldi? Oui, c’est moi. E dopo dieci minuti stavo spiegando cosa sapevo della disoccupazione giovanile in Tunisia, e della situazione politica del Paese dopo la rivoluzione. Da dedita lettrice di Internazionale, ero aggiornata sull’attualità internazionale, e la persona dall’altra parte del telefono rimase soddisfatta. Due settimane dopo, nonostante l’offerta di restare a Milano con un contratto di un anno, ero su un aereo per la Tunisia.
Avevo accettato un intership di tre mesi con la Banca Africana, in un paese sconosciuto, per un progetto pilota che avrebbe supportato le piccole e medie imprese tunisine. Il primo giorno venni spedita subito in missione (nel gergo internazionale significa viaggio nel posto dove sono i beneficiari del progetto) nel profondo sud della Tunisia. Due anni dopo, rifacevo quel viaggio per andare a visitare i beneficiari dei progetti che avevamo finanziato e supportato. Ero orgogliosa, ero maturata professionalmente, ero diventata una consulente e avevo acquisito skills importanti che mi rendevano fiera di lavorare in un’organizzazione internazionale. Tre anni dopo, i miei amici tunisini dichiararono che ero ufficialmente una di loro: mi chiamavano sorella (in arabo) e mi diedero un nome arabo (Zohra). La soddisfazione di sentirmi parte di qualcosa era enorme. La Tunisia era diventato il mio secondo paese, la mia seconda casa. Vivevo la mia quotidianità con naturalezza, circondata da amici, ed ero felice. Ma proprio in quel momento sentivo che era ora di passare a qualcos’altro, per la mia carriera, per la mia vita. Di allargare i miei orizzonti nuovamente, di scoprire altri paesi.
Dopo un mesetto di ricerche, finalmente qualcuno che avevo conosciuto in Tunisia un anno prima, aveva bisogno di me per un progetto sulla Tunisia. Non potevo essere più contenta, perchè mi chiamavano dalla Banca Mondiale. Il sogno di una vita si stava realizzando. E ora, se guardavo indietro, potevo unire i puntini e capire che c’era una specie di filo logico in tutto quello che avevo fatto. Sull’aereo per Washington ho avuto tempo di ridere, piangere, immaginare come sarebbe stata la Banca Mondiale, i colleghi… fu tutto una sorpresa. La città, la Banca, le persone…
non potevo credere ai miei occhi quando vidi il palazzo enorme della Banca Mondiale, la cui mission sovrasta l’ingresso principale: ‘to end extreme poverty’. Mi sentivo come in uno di quei film in cui la protagonista, da un piccolo villaggio sbarca in città e realizza il suo American dream.
Più o meno è andata così: tutti si stupivano del fatto che non avessi studiato negli Stati Uniti, in una delle loro prestigiose università, o che non avessi mai vissuto negli Stati Uniti. Per me era più difficile, entrare subito nel vivo della lingua, aggiornarmi e adeguarmi al mondo di Banca Mondiale, che è un mondo a parte, conoscere la città, cercare di farmi nuovi amici. Con una bicicletta scoprii subito i quartieri centrali, e poi pian piano imparare a conoscere anche i dintorni, a fare networking con altri professional in banca e fuori. Riuscii a transitare in un altro dipartimento, a lavorare su altri progetti, e a gennaio di quest’anno andai in missione per la prima volta in un paese che non conoscevo: West Bank e Gaza. Sì, ho avuto il privilegio di andare a Gaza e valutare un progetto interessante di investimento. Poi Gerusalemme e Ramallah, e Washigton di nuovo. Il mese scorso, sono entrata a far parte di un team che lavora sul Mozambico. Una settimana dopo mi hanno mandata in missione sul posto. Sono tornata a Washington a fine febbraio. Subito mi hanno chiesto di trasferirmi in Mozambico.
Eccomi qui, quindi, in rotta per l’Italia. Tappa intermedia prima di approdare in Africa di nuovo.
Credo di essere stata fortunata, non sono mai rientrata nelle statistiche dei giovani che fanno fatica a trovare lavoro o sono sottoccupati. C’è un mondo pieno di opportunità, ma mi rendo conto che non è facile entrare a farne parte. Non ho ancora avuto il tempo di capire se mi piace fare quello faccio. Sono entusiasta e mi impegno a fondo. Ho sempre avuto un’attrazione viscerale per l’Africa. Ma ancora conosco poco di questo immenso continente. So soltanto che tutte le volte che ci sono stata, mi ha lasciato un segno dentro.
Non credo fossi pronta di lasciare Washington così all’improvviso, ma non mi faccio troppe domande. Cerco di trarre il meglio da quello che mi capita. Quello che mi spinge ogni giorno è la volontà di fare qualcosa per gli altri, per il nostro mondo. Adesso tocca al Mozambico. Spero di tornare a scrivere cose fantastiche e belle realizzazioni di questa parte del mondo..
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