Rigore e disciplina, ma anche signorilità, umanità e rispetto. È il metodo Faccenna, una modalità di lavoro, ma soprattutto uno stile di vita che Pierfrancesco Callieri, professore di Archeologia dell’Iran preislamico al Dipartimento di Beni Culturali a Ravenna, deve al suo maestro Domenico Faccenna, illustre archeologo oggi scomparso.
“Fu lui a farmi innamorare di questo mestiere. Era l’amico del cuore di mio padre. Sono cresciuto con i racconti e le storie che portava a casa nostra dal Pakistan”.
“Anche il mio esordio, con lo scavo della missione dell’IsMEO nello Swat nel monastero buddhista di Saidu Shariff, lo devo a lui: a vent’anni mi affidò un settore dello scavo avendo cura di spiegare al capo operaio esperto che non sapevo scavare e mettendomi di fronte a questo mestiere senza che io avessi la benché minima esperienza, un vero battesimo del fuoco: salvo poi non mancare di farmi sapere in privato dove avevo sbagliato e dove dovevo correggermi”.
Ma questo era il metodo Faccenna: un sistema forse un po’ spartano, ma efficace, spiega Callieri, fatto di grande rispetto, regole precise, tanto rigore: “che mi ha insegnato a essere un capo missione, con tutto quello che ne consegue: dirigere i lavori, gestire i rapporti con gli operai e i tecnici, comunicare con le autorità, sempre in bilico fra delicati equilibri”. Metodo che è stato sempre sinonimo di vita dura: Callieri racconta che nel ’77, quando ancora era studente universitario, arrivò a perdere ben 15 chili in due mesi.
Una disciplina ferrea, dunque, indispensabile requisito per affrontare ogni scavo, sempre fonte di ansietà.
Sì, perché fare l’archeologo, spiega il prof, romano di origine, ma ravennate d’adozione, significa convivere con una grande responsabilità: “quella di distruggere inevitabilmente, mentre lo si scava, l’oggetto di studio, che magari sta lì da millenni, e di poterlo successivamente restituire all’umanità sulla base delle nostre deduzioni e ricostruzioni; lo scavo archeologico è in fondo come un intervento chirurgico, un’operazione che può essere irreversibile, che non mi fa mai vivere tranquillo”.
Callieri ha lavorato in Pakistan con Faccenna fino all’82: quando nell’81, a soli 22 anni, fu costretto a sostituire nel ruolo di capo missione il maestro malato, si ammalò anche lui di epatite virale, sicura vittima dello stress.
Non stupisce che, con così tanta pressione, nel curriculum del giovane studente Callieri ci sia una pausa di riflessione, pausa che nel ‘78 si prese per capire se questo mondo era veramente ciò che voleva: “Ho sentito il bisogno di staccare la spina e per un anno mi sono dedicato alla musica antica”.
Quella pausa di riflessione ebbe i suoi effetti: “Mi servì per tornare agli scavi con totale convinzione”.
Da lì una tappa fondamentale della carriera di Callieri, la sua prima esperienza di direzione di scavo, fu lo scavo di Barikot, sempre nello Swat: “Proposi a Faccenna un lavoro diverso, che non aveva a che fare con la cultura buddista di cui si era sempre occupato. Si trattava dell’abitato della città di Bazira, conquistata da Alessandro Magno: qui volevo occuparmi di vita quotidiana. Faccenna lo concesse. Fu un grande regalo. E Barikot resta una mia grande soddisfazione, perché in questo sito si continua a scavare ancora oggi con risultati eccezionali”.
Il Pakistan ha avuto tanta parte nella formazione e nell’attività di Callieri, ma è l’Iran il suo vero amore. “Nel 2005 il governo iraniano mi invitò a far parte di una campagna di scavi di salvataggio in questo Paese”. Da lì partì tutto.
Oggi il nome di Callieri è associato a una straordinaria scoperta archeologica, qualcosa che tutto il mondo ci invidia: un edificio nella collina di Tol-e Ajori, a Persepoli, nell’Iran meridionale, identificato come una porta monumentale del VI sec.a.C e risultato essere una copia della porta di Ishtar di Babilonia.
Questa scoperta è l’esito della missione archeologica congiunta italo iraniana attiva nella regione del Fars sotto la direzione sua e del collega iraniano Alireza Askari Chaverdi.
“Il sodalizio con Askari Chaverdi è un legame profondo che dura dalla mia prima missione in Iran e che ha prodotto grandi risultati. Nel lavoro, ho imparato molto da lui, per me è stato una guida fondamentale, a lui mi sono sempre affidato completamente, soprattutto nei rapporti con il territorio. Sullo scavo, tra italiani e iraniani siamo una cosa unica, non esistono distinzioni, lavoriamo insieme con un solo obiettivo: fare un buon lavoro”.
In Iran come in Pakistan, lo stile Faccenna continua ad accompagnare Callieri, anche se, precisa, in versione ‘soft’ rispetto a quella impartita dal suo maestro.
Oggi i diretti destinatari di questo metodo sono i suoi studenti, e in particolare il selezionato gruppo di giovani allievi del corso di Archeologia dell’Iran preislamico che il professor Callieri porta con sé sugli scavi.
“Qualcuno mi da del pazzo a portare i ragazzi in Iran: questo Paese a torto è sentito come estremamente pericoloso, fonte di terrorismo. In realtà so di sicuro che correrebbero più rischi in una città come Parigi perché l’Iran è un paese pieno di civiltà, con una grande cultura e tradizione”.
Per questioni di parametri inderogabili sono purtroppo pochissimi i fortunati e con scarsissimo ricambio. “Spesso devo scartarne anche di bravissimi e sceglierli a intuito, pensando piuttosto a chi meglio si può adattare al contesto di lavoro. Non posso rischiare che il comportamento sbagliato di uno comprometta l’intera missione. Quando arriviamo sul sito smettono di essere studenti e diventano collaboratori. Imparano molto perché non fanno manovalanza, ma si occupano piuttosto di seguire e guidare gli operai e documentare lo scavo. Qui il metodo Faccenna è la regola d’oro”.
È incredibile, ma Faccenna ha avuto un ruolo fondamentale anche nella vita sentimentale di Callieri: fu ad una presentazione di un volume sulla sua attività che il professore incontrò la moglie. “Fu grazie a un docente pakistano che la conobbi. Lei non era un’archeologa, ma l’anno dopo il matrimonio mi seguì per un mese in Pakistan. Fu un periodo bellissimo”, racconta.
Commenti